L’uomo, se ancora poteva definirsi tale, sedeva rigido nella poltrona dell’ampio e luminoso salotto. Vestiva un completo blu e sulla camicia bianca, ai cui polsini spiccavano due gemelli d’oro e di lapislazzulo, la cravatta dal perfetto nodo Windsor era un luminoso gioco di pois azzurri bianchi
e rossi su fondo blu notte.
Poco sopra il colletto, carne cruda e rossa.
Con un sorriso di godimento perverso e assoluto, dal piano di un mobile bar, fra due vasi greci, la testa dell’uomo fissava il proprio cadavere con occhi ormai ciechi.
O, forse, aperti su nuove realtà: chi può dirlo?
«Morto da almeno sei ore» mormorò il dottor M.Orte, strappato al tepore di casa. La casa del dottor M.Orte. Né gli uccelli del cielo né gli animali dei campi si avvicinavano a quella casa? Oh, no, al contrario. Fiori, farfalle e cinguettio di uccelli. Ma sull’uscio una targhetta d’ottone recava scritto
M.ORTE.
Il dottor Marcello Orte era l’anatomopatologo dell’ospedale, a Como. Ma viveva a Blevio, ai margini del paese, là dove via Caronti conduce al limite ultimo della Frazione Cazzanore.
E adesso, la mattina di giovedì 21 gennaio 1960, era lì, in quell’attico da dove la vista spaziava oltre il lago, sull’Alpe innevata. Era una fredda mattina invernale, e il cielo era di smalto. Sì, faceva freddo. I carabinieri erano avvolti nei pesanti pastrani d’ordinanza, i volti cupi. Perché quel morto, oltre che assurdo, era stato importante, da vivo. E rischiava d’esserlo ancora di più ora che era morto.
(Hans Tuzzi, “Curiosissimi fatti di cronaca criminale”, Bollati Boringhieri, 2023)
Difficilissimo, quasi impossibile coniugare genere fantastico e genere poliziesco insieme, a meno di chiamarsi Edgar Allan Poe, maestro e precursore indiscusso. Hans Tuzzi, noto autore di polizieschi (i romanzi con il commissario Melis) esegeta del genere (“Come scrivere un romanzo giallo o di un altro colore”) e altrettanto conosciuto bibliografo (“Il mondo visto dai libri”, solo per citare l’ultimo di una serie), qui non convince per niente. Peccato.
Eppure, ci sono i morti ammazzati (un medico, un senatore, un avvocato, liquidati in modo misterioso, inspiegabile, praticamente soprannaturale), ci sono fior fiore di detective (su tutti, poliziotti e carabinieri, il commissaro Fumi, in procinto di pensionamento). Ci sono delitti collaterali (altrettanto misteriosi come quelli dei tre personaggi importanti), ci sono luci strane notturne (verdi: che siano gli extraterrestri?), ci sono bambini particolarmente sensibili (che inventano poesie senza sapere quello che dicono, o parlano con il gatto di casa).
Tanta, tantissima roba, che con il consueto stile molto raffinato Tuzzi utilizza, commenta, ammiccando al lettore evoluto (siamo nel 1960, anche la politica, le Olimpiadi di Roma e il boom economico del dopoguerra hanno la loro parte), ma in definitiva il gioco di prestigio non riesce, tutto sembra (no: è) finto, troppo finto. Hai voglia a sospendere l’incredulità, come suggeriva Coleridge, per gustare il fantastico letterario. In fondo, il poeta inglese lo scriveva nel 1817 e duecento anni non sono passati per niente.
Peccato, ripeto, perchè Tuzzi scrive bene, i personaggi gli riescono bene, l’ambientazione è perfetta (tra gli ammiccamenti, ci sono i prodotti in uso allora, detersivi o automobili). Ma alla fine non resta niente, a parte la delusione.
Gianluigi Coltri
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