Tutte le vite iniziano con una donna e così anche la mia, una donna con i capelli rossi che entra in una stanza e ha addosso un completo di lino, l’ha tirato fuori dall’armadio per l’occasione, se l’è comprato al banco di Porta Portese, il banco buono dei vestiti di marca ribassati, non quelli da poche lire, ma quelli con sopra il cartello: PREZZI VARI.
La donna è mia madre e ha una valigetta di pelle nera stretta nella mano sinistra, si è fatta da sola la piega ai capelli, ha usato bigodini e lacca, ha gonfiato la frangetta con la spazzola, ha occhi verdi e gialli e tacchetti da cresima, lei entra e la stanza si fa piccola.
Alle scrivanie siedono impiegati, mia madre ha passato tre ore all’angolo del palazzo, la valigetta contro il petto, e quando lo racconta dice che le sue gambe erano burro e la saliva acida.
Si avvicina muovendo i fianchi e prima di lei arriva il profumo con cui ha coperto l’odore di lenticchie cucinate per il pranzo, dice: Sono venuta per vedere la dottoressa Ragni, ho un appuntamento.
(Giulia Caminito, “L’acqua del lago non è mai dolce”, Bompiani, 2021)
Questo romanzo, oltre ad essere stato finalista al Premio Strega 2021, ha vinto la recentissima edizione del Premio Campiello: si tratta di riconoscimenti importanti, ancor più se rapportati alla giovane età dell’autrice, nata nel 1988, ma già vincitrice di un Bagutta nel 2016. Tutto bene, allora?
Non proprio, ma la mia perplessità è riferita soprattutto allo stato della narrativa italiana, non alla Caminito. Ma andiamo con ordine.
“L’acqua del lago non è mai dolce” sembra già dal titolo aggrovigliarsi su una contraddizione in termini, ma è veramente questa la cifra del libro: forse il vocabolo più usato è “non”, in alcuni paragrafi a raffica, a cascata, in una sequenza martellante di negazioni. E negativa appare, fin da piccola, la piccola Gaia che proprio gaia non è (in coerenza con l’assunto del “non”). Quanto Gaia sia bastian contrario per se stessa o in riferimento alla madre Antonia, questa è una delle linee narrative, visto che seguiamo loro due e
l’intera famiglia (padre invalido, fratello anarcoide, altri due fratelli gemelli maschi integratissimi) tra Roma e Anguillara, e il lago di Bracciano, nell’arco di tempo che va dalla scuola elementare alla fine dell’università di Gaia.
Romanzo di formazione? Anche, ma non nel senso tradizionale. La difficoltà di rapporti con la generalessa Antonia è una specie di laccio soffocante, ma nonostante Gaia arrivi ad una sua libertà, poi non sa bene che farsene (come della laurea). Romanzo di sperimentazione sociale? Sono presenti le differenze di ceto (soprattutto con il giro di amici che nasce nell’adolescenza e nella giovinezza), ma non sono determinanti quanto quelle caratteriali. Alla fine, l’autrice ci lascia un po’ sospesi: mentre alcuni giovani, che sembravano sociopatici o pericolosi più di Gaia, trovano una loro strada, lei sembra ancora sospesa. O imprigionata nella famiglia. Ma il finale è la parte debole del libro e c’è una spiegazione: quando si usa un protagonista “limite” o border line, alla fine non hai molte soluzioni a disposizione. Per fare un esempio televisivo, vi ricordare come finisce la serie del Dr. House?
Insomma, c’è molto da discutere, ed è meglio così, chiediamo alla letteratura di smuovere e non solo di commuovere. Comunque, non siamo in presenza di autobiografia e neppure di autofiction (vedete: anch’io sto ricorrendo al “non” per parlare di questo romanzo), purtroppo neanche di un capolavoro, al di là dei premi, ma questo passa il convento… Chi avrei premiato io? Balzano, giusto per fare un nome, ma ne parleremo un’altra volta.
Gianluigi Coltri
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