“Una donna entra in un cinema, da sola. Il bigliettaio ormai la conosce, le sorride, lei ricambia il sorriso, scambia due parole, e si avvia verso la platea. Sceglie un posto tra la quinta fila, leggermente a destra, si guarda intorno, si leva il cappotto e si siede. Accavalla le gambe e guarda i depliants di presentazione del film, li legge accuratamente due, tre volte, da un occhiata agli ultimi spettatori che si accomodano, si spengono le luci. La pubblicità degli altri film, che precede la proiezione, servirà ad assestare il pubblico, a scambiare l’ultima parola. Inizia il film. La donna ha 39 anni, single, vive da sola e fa l’insegnante. conduce una vita insoddisfacente alle sue aspettative e soffre di una forma latente ed ereditaria di depressione ciclica che la porta a sentire decuplicati gli effetti della solitudine.”
Potrebbe essere il racconto di una malattia, di una forma patologica di essere che trova il suo momentaneo appagamento nella realtà filmica, potrebbe essere il racconto di un’eccezione, di un caso particolare tra i tanti presenti in sala, invece è solo un caso diverso, forse nemmeno tanto dagli altri, un caso che capita spesso, che potrebbe benissimo portare il nostro nome.
Per Maurice Mourier, studioso di letteratura francese, il cinema è malattia e rimedio assieme, viene quindi naturale associare il termine paziente allo spettatore. La televisione è un borbottio indistinto nella luce del soggiorno, parla tra il disinteresse generale, “profluvio di “Talking heads” , come le definisce Sandro Bernardi in Introduzione alla retorica del cinema, “il cinema invece è la notte, è una cattedrale, una folla di sconosciuti, senza la quale le emozioni, gli smarrimenti, le estasi banali e sublimi non sarebbero possibili…..la comunione cinematografica è o era possibile solo nell’eteroclito ammucchiarsi di spettatori in un pollaio strapieno di cervelli che, appena si spegne la luce, cominciano ad oscillare simultaneamente con le immagini che si ramificano all’infinito, passando dai nostri neuroni a quelli dei vicini e dei vicini dei vicini, fino a comporre un grande anonimo, immenso cervello lovercraftiano, un leviatano che respira l’aria viziata e maleodorante della libertà” (BERNARDI Sandro, Introduzione alla retorica del cinema, Le lettere, Milano, 1994). Le immagini evocate da Bernardi e da Mourier portano all’idea di comunione, ma anche di dissoluzione del singolare, dell’identità, dello spettatore, quasi una sorta di rituale orientale che aspira al ritorno in un’unità indifferenziata, primordiale. Ma c’è un’altra ipotesi, o prospettiva. Per Christian Metz, autore di uno dei primi studi di metapsicologia sul meccanismo della visione filmica, il pubblico non è una collettività, ma una serie di unità aggiunte: “ un club di spioni recidivi e feticisti, cultori della regressione, inchiodati allo stadio dello specchio lacaniano, o ad una relazione oggettuale kleiniana (oggetto buono, oggetto cattivo), ma anche, perché no, filosofi, dato che dormono mentre sanno di non dormire, sognano mentre sanno di non sognare”.
Invece per Baudry, altro noto studioso del settore, gli spettatori realizzano l’antico mito platonico della caverna: essi vedono passare le ombre, incatenati al loro realtà di impiegati, operai, insegnanti, dirigenti ecc., incatenati cioè alla loro sedia, che hanno scelto all’interno della sala. Le ombre sono la metafora del reale, e come platone stesso insegna, metafora di un sogno, visto che la realtà è solo sogno, ombra e rappresentazione. Continua Metz spingendosi fino a rivelare la frattura che si crea nello spettatore, frattura che la psicanalisi individua nel conflitto fra principio di piacere e principio di realtà. Lo spettatore elabora un’allucinazione cosciente, una frattura fra la parte desta e la parte sognante, egli sa che ciò che vede non è reale, eppure si commuove, si arrabbia, piange, ride, spera. E’ il sogno ad occhi aperti di cui parla Freud, il Tagtraum, o la reverie, la fantasticheria. Ma questi due casi sono momentanei allontanamenti della coscienza dall’esperienza sensibile, esperienza, che nel film invece è sempre presente e fondante l’atto del vedere (nel tagtraum o nella reverie l’occhio può essere aperto, ma diventa indifferente all’esperienza sensibile, come sospeso in attesa di riprendere la sua attività di vigilanza, nel film l’occhio invece è catturato, assorbito dall’immagine, impossibilitato a fuggire, primato della passività del vedere). La forza del cinema sta in questa duplice forza di percezione. Lo spettatore che viene stimolato non elabora nella coscienza gli stimoli per far seguire una reazione, egli li accoglie passivamente, come in uno stato semi-ipnotico.
Rilevando che lo spettatore può essere visto come unità singola, assolutamente non associabile alla massa degli altri spettatori, in quanto sono esigenze singole che spingono la persona ad entrare nel cinema, ma è possibile compiere una sintesi tra le due vedute, se cominciamo a pensare l’atto di andare al cinema come diviso in tappe, in momenti. Esistono dei momenti in cui lo spettatore è solo, questo almeno fino a quando le luci si spengono, fino a quando egli non è ancora prigioniero della visione, quando la sua realtà è fatta ancora dei suoi vestiti, dei suoi impegni del giorno dopo, delle sue ansie e paure, della sedia che si è scelto fatta in un modo particolare, degli altri, visti come altri appartenenti alla sua stessa realtà, al suo stesso mondo. Quando le luci si spengono, lo spettatore viene rapito, viene violentato dal film, egli perde la capacità critica che l’accompagna durante il quotidiano, la coscienza viene assorbita dalle immagini e riferisce ad esse soltanto, è la perdita, lo 0 del significato, per dirla con Roland Barthes, e continuando a citare il semiologo francese, lo spettatore si avvia verso quel “luogo che è eternamente e superbamente fuori da ogni visione”.
Quindi c’è un al di là della visione, qualcosa che trascende il film stesso, e ritornando alle tappe del nostro spettatore ideale, potremmo dire che entra da solo nella sala cinematografica, poi si confonde con il resto del pubblico, secondo l’idea di Mourier, per poi uscire, sfondare la visione in uno spazio in cui la pellicola diventa trampolino di lancio per la perdita dello spettatore stesso (ed in quel momento egli è se stesso, ma non è il se stesso della sua quotidianità, e non è nemmeno più collettività, è singolarità perduta). Non più il confondersi tra i tanti, ma una singolarità polverizzata, singolarità assorbita, nella sua singolarità.
Abbiamo sentito, all’inizio, le parole: cattedrale, notte, a proposito della sala cinematografica, a proposito dell’esperienza filmica. Inutile sottolineare come questi termini rimandino, sotto il profilo psicanalitico, all’ archetipo uterino. La chiesa, in particolare le cattedrali del XIV secolo avevano una loro dimensione femminile, dimostrata dai vari studi a carattere storico-esoterico. La notte è un altro archetipo di grande madre, grande utero, pensiamo al cantico dei cantici di San Giovanni della Croce, e a tutti i significati dati alla notte dell’anima, contro il giorno del corpo, dalle varie sette eretiche a carattere gnostico. La sala cinematografica diventa l’ennesima epifania dell’utero. Utero materno, in cui si cerca il riassorbimento, l’oblio dell’acqua primordiale, la sicurezza della deresponsabilizzazione. Ed in effetti troviamo un comportamento particolare nel nostro caso iniziale, quanti vanno al cinema per delegare? Per delegare la visione di sopperire alle proprie frustrazioni. La sala buia diventa l’utero che rassicura, che annulla la coscienza e le sue responsabilità, ci si affida al viaggio, all’immedesimazione nel mondo delle ombre platoniche, si chiede al film quello che si può solo sognare. Coppie in crisi che vanno al cinema, per non parlare, per evitare di affrontare la responsabilità del loro fallimento, single insoddisfatti, delusi, e soli, presunti amanti dell’arte, critici severi, e grandi intenditori vittime di una regressione infantile che ha origine nella loro insoddisfazione. Ecco la nevrosi che il cinema svela nello spettatore.
A ragione Metz chiama gli spettatori feticisti, feticisti dell’immagine, che può essere solo nel buio di una sala cinematografica. Non è la stessa cosa vedere un film a casa, la sala compie una specie di atto maieutico all’incontrario, ci fa rientrare in quello stadio pre natale in cui la coscienza dormiva. E come le cattedrali sono il luogo in cui si officiano i riti, anche la sala prevede i suoi riti. Il biglietto, la fila e la sedia in cui prendere posto, gli sguardi verso gli altri spettatori, i depliants, la pubblicità prima della proiezione, un rito che non può essere ripetuto a casa, per questo il cinema non è il film, non è il film e basta. Il film è l’opera, sensibile, trasportabile, il cinema, per lo spettatore (per l’attore sarà altro, come altro sarà per il regista) è la sala e i suoi riti. Potremmo dire che chi guarda tanti film ha dei problemi e diremmo un ovvietà e una bugia, in quanto lasceremmo in una menzognera sanità mentale tutto il resto del mondo.
Il cinema non è come le altre forme d’arte, la settima arte è più subdola, supera il confine che le altre forme artistiche delimitavano, compresa la musica. Se Schopenauer avesse visto il cinema non avrebbe scritto quello che ha scritto sulla musica, il cinema è anche musica, è parola, è rumore, è il sogno dell’opera d’arte totale come non l’avrebbe potuta immaginare Wagner. Ma l’opera si ribella alla natura, non coglie il vero, se il vero esiste, ma da impressioni, antiplatonica per eccellenza, legata alle miserie umane, nessuna emulazione di un qualsiasi concetto di bello, tragica in una dimensione shakespeariana. “Il poeta è un fingitore” diceva un grandissimo poeta portoghese F.Pessoa, altrettanto possiamo dire del regista. Al regista non interessa dare insegnamenti, lanciare messaggi, nessuna democrazia è presente nell’opera d’arte, tanto meno nel cinema, il regista mente, prima di tutto a se stesso. Il film è solamente la sua esasperazione, la sua solitudine urlante, che vuole essere comunicata. Il cinema non riesce ad essere educativo, non può permettersi questo. Franco Rella diceva che lo scrittore scrive per comunicare, per parlare con altri, per essere capito, ecco un’altra nevrosi, che sta dall’altra parte, nel nostro caso, dall’altra parte dello schermo. E’ un bisogno esistenziale che anima l’artista, possiamo avere delle storie che parlano di politica, ma non faticheremo a trovarvi solo una metafora dell’estremo bisogno che ha l’artista di parlare di se stesso. E per fare questo finge, finge ed è tanto più bravo quante più sono le persone che rimangono ingannate. Allo spettatore non resta che lasciarsi ingannare, in questo sta la vittoria del principio di piacere contro il principio di realtà dei quali si accennava all’inizio, solo ingannandosi lo spettatore gode.
E siamo arrivati ad un punto cruciale: il godimento dello spettatore.
A questo proposito vorremmo considerare il pensiero, su di un altro versante, di un filosofo francese E. Levinas, il quale da una sua versione dell’atto sessuale del godere.
Levinass parla di equivoco, l’atto sessuale si fonda sull’equivoco della reciproca comprensione, potremmo dire sul mito dell’anima gemella, anche se con le dovute cautele delle diverse situazioni. Collocando il volto come punto di non ulteriore trascendenza, di assoluta irrimandabilità del segno, Levinass vede nell’amplesso l’andare oltre, non a caso intitolerà uno degli ultimi capitoli di Totalità e Infinito appunto L’aldilà del volto. L’aldilà del volto è l’equivoco, la perdita di ogni significato possibile. Il volto non rappresenta ma è, nello stesso modo potremmo vedere tutto l’apparato che predispone al cinema come un volto, la sala, la cinepresa, la gente, le sedie, le tende, il bigliettaio, tutto questo è il volto del cinema, quello che sta sotto la luce del sole, l’aldilà comincia quando tutto questo sparisce, quando si fa “buio in sala”.
Ed è un amplesso che lo spettatore cerca, è il suo equivoco, che la storia parli in chiave metaforica di lui, che soddisfi al suo bisogno d’immedesimazione, che lo faccia trascendere, andare oltre, in un oltre nel quale vuole perdersi, assorbirsi, nella stessa misura in cui il maschio cerca il piacere nell’organo femminile. Vi è nel amplesso una perdita, un assenza irrimediabile, la sola che possa permettere lo sfregamento dei corpi. La nudità della donna, come la nudità dell’immagine è oscena, intimorisce, fa paura, ed ecco che lo spettatore-amante compie il salto nell’aldilà e si perde, perde la sua coscienza critica, perde la sua quotidianità, assorbito in un nirvana filmico lo spettatore cessa di essere IO. Dall’altra parte dell’equivoco c’è l’inganno del regista, non del film, il film è solo oggetto, ammasso di celluloide, il regista seduce, appaga il suo bisogno di conferme (e cos’è il seduttore se non una persona fragile che deve continuamente cercare conferme nella propria esistenza, perché senza gli altri egli è nulla), e inganna.
Ma il cinema non è interattivo, l’amplesso non riesce, si trasforma in pratica onanistica, la visione non comprende il suo spettatore-amante, essa è frigida, e lo spettatore che pretende di appartenervi, si convince della penetrazione che però non avviene, sublimandosi nell’aldilà di cui prima. Lo spettatore attraversa lo specchio lacaniano, per ritrovarsi polverizzato, supera il suo doppio, ma non riesce a scalfire l’opera, non riesce ad interagire con essa. Lo schermo inteso come grande vagina porta lo spettatore femmina o maschio ad assumere connotati maschili, ma la vera aggressione, in questo caso, la subisce proprio la “parte maschile”. Lo spettatore, lo avevamo già visto, non può che essere passivo, il suo movimento è un movimento che non turba l’immagine, l’immagine però aggredisce lo spettatore, lo violenta. In un bellissimo libro del 1974 G. Deleuze, evidenzia i meccanismi che animano l’immaginario erotico delle suggestioni sadomasochistiche.
Destituendo la dimensione patologica nella quale aveva gettato queste tendenze Kraft Ebbing, assolutamente naturali in ogni essere umano, Deleuze evidenzia i tratti caratteristici del masochista e del carnefice. Il masochista istituisce un contratto, nel quale dichiara la propria sottomissione, scelta in assoluta libertà, egli sospende la sua coscienza, sospende la sua responsabilità e si affida al viaggio, delega il proprio piacere del quale egli non vuole essere la causa. Ed è il medesimo principio che scatta nello spettatore cinematografico, lo spettatore sceglie la sua violenza, sa che una volta acquistato il biglietto, una volta che le luci saranno spente, non gli resterà che essere in balia del suo carnefice, il film-regista (in questa circostanza si vuole considerare il film come opera del regista e il regista come facente parte dell’ opera egli stesso, quindi li consideriamo uniti nel concetto di opera d’arte).
E come masochista il piacere che ne trarrà sarà dato da questo suo essere immobilizzato, da questo suo essere “spettatore”, da questo subire le cariche emotive che il film-regista gli vuole trasmettere. E’ proprio l’impossibilità di qualsiasi forma di interattività che determina un godimento del film, godimento non assimilabile a quello dato dalla fruizione di altre opere d’arte, non la lettura, che può essere interrotta o disturbata, non la pittura, in quanto si dispone sempre in luoghi luminosi, pubblici e comunque privi di quella “notte” che caratterizza il cinema, non la musica se tralasciamo l’ascolto di musiche nei concerti, dove comunque l’attenzione viene deviata da elementi non musicali. Il film, per la sua durata, per i suoi confini spazio temporali, imprigiona lo spettatore nella sua dimensione, e non lascia alternative di fuga e la sua dimensione è ancora la “notte” della sala cinematografica.
maggio 1999
nell’ordine le foto sono tratte da
Satantango di Bela Tarr
Luci d’inverno di Ingmar Bergman
Quarto potere di Orson Welles
Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni
Arancia Meccanica di Stanley Kubrick
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