La prima volta avevo cinque anni. Lui era alto, sottile, rigido: parlava di un bambino piú piccolo di me che un pomeriggio trovava nel suo giardino un’enorme fragola rossa.
Credo che il bambino si chiamasse Celestino. Aveva di sicuro gli occhi azzurri.
Non era un tipo sveglio, ma lo stupore e la gioia nei suoi occhi rotondi e l’allegria del prato selvatico abitato da ranuncoli, margherite, coccinelle e farfalle mi facevano stare bene. Ero innamorata di quel libro.
Restò al sicuro in casa di mia madre, a Ferrara, fino a quando lei non morí e la casa fu svuotata. Lo portai a Milano e lo consegnai solennemente nelle mani di mia figlia, che aveva piú o meno l’età di Celestino.
Dopo qualche anno, in uno dei suoi risoluti cambi di pelle di lettrice, Emilia lo mise in uno scatolone che finí in cantina, che come tutte le cantine si allagò, e fu cosí che il mio primo amore andò al macero.
(Daria Bignardi, “Libri che mi hanno rovinato la vita”, Einaudi, 2022)
Ho scoperto di compiere gli anni lo stesso giorno di Daria Bignardi, ma con un anno di differenza, a suo favore. Di fatto, anche questo semplice riscontro anagrafico esplicita l’assunto che “Libri che mi hanno rovinato la vita” è eminentemente un testo autobiografico, molto legato all’autrice medesima. Il che può piacere o non piacere (soprattutto quando le autobiografie sono scritte troppo presto, da giovani, ma a sessant’anni, via, qualcosa si è vissuto).
La cosa interessante è comunque l’assunto di base: non parlare di libri amati o odiati, non di quelli che hanno cambiato la vita, ma di quelli che l’hanno rovinata. Rovinare ha un’etimologia chiara: distruggere, andare in pezzi, guastare, rendere inutilizzabile anzitempo. La rovina, poi, può essere metaforica (per me, aver letto Borges è significato capire che non avrei mai potuto fare lo scrittore) o reale (se un libro mi spinge a commettere un reato, ad esempio). Insomma, parliamo di libri d’impatto, dopo la lettura dei quali le cose sono diverse, nulla è più come prima (altrimenti, che rovina sarebbe?).
In questo senso, la lettura (comunque gustosa) del libro di Daria Bignardi spinge a guardare un po’ più a fondo, nella nostra libreria: perchè certi libri ci hanno così disturbato che li ricordiamo, libri d’inciampo vorrei dire, capaci di creare ostacoli, disturbi, dubbi. Libri scomodi, di cui non riusciamo a liberarci (dentro). Allora, in questo senso, “Qohelet” nella traduzione di Ceronetti (Einaudi, 1980) mi ha rovinato con le sue domande sulla vita, sul suo senso, e sul senso di ciò che sta oltre la vita stessa. O la sconvolgente autoironia del racconto della malattia da parte del malato stesso (Bauby, “Lo scafandro e la farfalla”) o la spietatezza della verità (Haruf,
“Crepuscolo”). Libri anche da odiare, talvolta, perchè sappiamo che insistono sui nostri punti deboli o sulle nostre ombre interiori. Libri che non scriverò qui, perchè non sono Daria Bignardi e non voglio essere autobiografico.
Intanto, però, il libro della simpatica giornalista mi è stato utile per “rileggere” la mia biblioteca in maniera diversa.
Gianluigi Coltri
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