Si chiamavano Pierre Hunter e Rebecca Lee e avevan diciassette anni, e lui era passato a trovare lei in ospedale, perché si era presa la polmonite dopo aver partecipato a una corsa campestre in un weekend di pioggia.
Rebecca era a letto, con le mani pallide e magre aggrappate alle sponde, e diceva che se la stanza non era al buio lei non riusciva a dormire.
«Qui non è mai buio» disse. «Entra luce tutta la notte».
«Magari si possono chiudere le tende».
«Le chiudo. Ma la luce entra lo stesso».
Pierre si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Il parcheggio era illuminato da un reticolo di lampioni, uno dei quali si trovava proprio davanti alla finestra. E proiettava una luce bianca con il centro azzurro.
«Ti capisco» disse. «Sembra quasi una fiamma ossidrica».
«Dovresti vedere più tardi, quando nella stanza spengono le luci» disse lei. «Anche adesso dà fastidio, ma è niente al confronto. E fa anche un ronzio antipatico».
«Davvero? Quello non lo sento».
Lei si passò una mano tra i capelli, corti e castani, con mèches rosse e ciocche appuntite simili a basette.
«Be’» disse «adesso non lo sta facendo».
«Ne hai parlato con qualcuno?».
(Tom Drury, “Il movimento delle foglie”, Enneenne Edizioni, 2019)
Ci sono alcuni punti di contatto tra Kent Haruf e Tom Drury: l’editore italiano è lo stesso, entrambi poi hanno scritto romanzi ambientati in contee immaginarie nel Midwest, trilogie vere e proprie. Ma Haruf non c’è più, mentre Drury vive e lotta insieme con noi. Scherzi a parte, almeno in questo “Il movimento delle foglie” le differenze con Haruf sono notevoli. Soprattutto per un certo “realismo magico” che attraversa trama e personaggi e che chiede al lettore di abbandonarsi alla sospensione dell’incredulità (così avrebbe scritto duecento anni fa Coleridge).
La storia si svolge seguendo la vita di Pierre, dai suoi diciassette anni in poi, con la scoperta dell’amore, la ricerca del suo posto nel mondo, l’incontro con la misteriosa Stella, con una successione di eventi che matureranno prima un dramma e poi una tragedia. Non è un romanzo consolatorio: il Midwest, con la durezza della vita, le poche prospettive, la facilità con cui si regolano i conti con le armi, è una presenza ingombrante. Ma attraversa il libro anche la poesia, che sta nella delicatezza degli incontri dove i sentimenti sono ancora puri e pieni di speranza.
Sta, la poesia, anche nel titolo, che non rispecchia per niente l’originale, che è “Driftless Area”. Nella trasposizione sarebbe stato “Zona con pochissimi resti della glaciazione” (un obbrobrio), in altri Paesi si è ricorso a “Zona immobile”. In Italia, il traduttore Gianni Pannofino ha proposto a Drury “Il movimento delle foglie”, che all’autore è piaciuto tantissimo, come egli stesso dichiara nella nota finale, perchè richiama un preciso passaggio nel testo, quando Pierre cerca di spiegare i versi di una poesia. E anche questa, se volete, è magia.
Gianluigi Coltri
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