Fausto aveva quarant’anni quando si rifugiò a Fontana Fredda, cercando un posto da cui ricominciare. Conosceva quelle montagne fin da ragazzino, e la sua infelicità quando ne stava lontano era stata tra le cause, o forse la causa dei problemi con la donna che era quasi diventata sua moglie. Dopo la separazione aveva affittato un alloggio lassú e trascorso un settembre, un ottobre e un novembre a scarpinare per i sentieri, raccogliere legna nei boschi e cenare davanti alla stufa, assaporando il sale della libertà e masticando l’amaro della solitudine. Scriveva, anche, o perlomeno ci provava: nel corso dell’autunno vide le mandrie lasciare gli alpeggi, gli agh dei larici ingiallire e cadere, finché con le prime nevi, per quanto avesse ridotto all’osso le sue necessità, finirono anche i soldi che aveva da parte. L’inverno gli presentava il conto di un anno difficile. Qualcuno a cui chiedere un lavoro a Milano lo aveva, ma si trattava di scendere, attaccarsi al telefono, risolvere con la sua ex gli aspetti lasciati in sospeso, e una sera, poco prima di rassegnarsi a farlo, gli capitò di confidarsi davanti a un bicchiere di vino, nell’unico luogo di ritrovo di Fontana Fredda.
Da dietro il suo bancone Babette lo capí perfettamente. (Paolo Cognetti, “La felicità del lupo”, Einaudi, 2021)
C’è chi ha affermato che uno scrittore, in un certo qual modo, pur cambiando trama, scrive lo stesso libro per tutta la vita. Penso fosse un paradosso o una metafora, ma Cognetti l’ha preso sul serio. Questo suo nuovo romanzo, per chi ha letto i precedenti, appare del tutto scontato. Abbiamo le montagne (imprescindibili), un uomo in rotta con la vita cittadina, la ricerca di una nuova dimensione (che contempla anche l’incontro con una donna), con attorno delle figure di sbandati e irregolari, oppure romantici e solitari.
Il bello (o il brutto) della storia, è che Fausto sarebbe uno scrittore di cose leggere, un po’ sentimentali, in crisi d’identità (oltre che con la quarantennite). La giovane donna che incontra (Silvia, ventotto anni) è forse più matura di lui, perchè qualche pensiero sul futuro ce l’ha (si porta dietro un conflitto con la madre, che l’ammoniva che occorre più coraggio per restare che per andarsene). Lo scrittore in crisi, invece, si mette a fare il cuoco (alle dipendenze di Babette): beato chi si accontenta.
Cognetti sa scrivere bene, punto. Con questo punto, cioè, potrebbe finire il commento. La storia è così debole che neppure il capitolo finale, che pure ha una sua poesia, riesce a riscattare la poca consistenza del resto (non è che con le salse e i condimenti salvi un piatto scadente). Si ha come la sensazione, alla fine della storia irrisolta, che anche l’autore sia arrivato ad un limite, che è forse esistenziale prima che creativo. Le uniche certezze, come scrive lui, sono le montagne: ovvio. E allora?
Gianluigi Coltri
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