Nell’agosto del 2009 ero negli archivi dello United States Holocaust Memorial Museum, dove stavo cercando documenti nazisti che permettessero di avviare un’azione penale contro il più alto ufficiale delle SS ancora vivo in Germania all’epoca. Questo «ultimo nazista» era Bernhard Frank, l’ex Obersturmbannführer – il corrispettivo di un tenente colonnello – al comando delle forze incaricate di proteggere il Berghof, la proprietà di Adolf Hitler sulle Alpi. Frank era un pupillo di Heinrich Himmler, il comandante in capo delle SS, responsabile del genocidio degli ebrei europei. All’inizio di quello che è ormai chiamato «Olocausto dei proiettili», Frank aveva ordinato che nelle prime fucilazioni di massa non fossero risparmiate nemmeno le donne, assicurandosi che i dettagli di quelle operazioni venissero accuratamente registrati. Tra il luglio e l’ottobre del 1941 aveva documentato l’assassinio di oltre cinquantamila uomini, donne e bambini ebrei nei campi, nelle paludi e nei burroni dell’Ucraina e della Bielorussia.
Mentre leggevo i microfilm dei rapporti delle SS, Vadim Altskan, l’esperto del museo sull’Ucraina, mi interruppe per chiedermi se avessi tempo di dare un’occhiata a una cosa. Mi presentò due giovani giornalisti di Praga che volevano mostrarmi una fotografia. Secondo la documentazione di cui erano in possesso, era stata scattata a Miropol, in Ucraina, il 13 ottobre 1941.
(Wendy Lower, “Il massacro”, Rizzoli, 2021, trad. Roberta Zuppet)
La foto di cui parla Wendy Lower è esattamente quella che compare sulla copertina del suo libro, i fatti avvengono nell’autunno del 1941. I luoghi, come rilevabile dalla citazione, sono tristemente attuali. L’azione raffigurata è la fucilazione di una famiglia ebrea da parte di soldati nazisti e di collaborazionisti ucraini. L’autrice, una storica con un talento da detective, ha solo questa foto, e da questa parte per un lunghissimo lavoro di ricerca, compiuto anche sui luoghi, oltre che sui documenti.
Si potrebbe definitire il classico “cold case”, e un po’ lo è: occorrono accanimento, pazienza, intelligenza, e alla fine serviranno quasi dieci anni e un po’ di fortuna per arrivare al libro. Ma la donna che compare nella foto, appena colpita, il figlio che tiene per mano, un altro che quasi non si vede, l’uomo, forse colpito prima di lei, che indossava i vestiti che si intravvedono, acquisteranno nome e cognome. E nome e cognome avranno anche i soldati che compaiono in piedi. E nome e cognome avranno pure i collaborazionisti, tra l’annoiato e il distratto, che stanno accanto ai soldati. Nome e cognome l’avrà anche il fotografo.
La ricostruzione di Wendy Lower è micidiale, ammirevole ma choccante, per tutto quanto lungo il suo percorso in giro per il mondo ha finito per incontrare, per le difficoltà, le reticenze e l’indifferenza con cui ha dovuto fare i conti. Ma un pezzetto piccolissimo e apparentemente insignificante di storia acquista un valore enorme, diventa perfino un monito: è il fallimento di chi voleva cancellare, sterminando e seppellendo, bruciando ed eliminando, l’identità e la storia di persone.
Di nuovo, però, la storia sembra ripetersi, in quei luoghi, con altri nomi, altre storie…
Gianluigi Coltri
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