«Se me lo ricordo? Eh, direi che me lo ricordo. Non mi sono mica bevuto il cervello in tutti questi anni, nossignora, non io. Me lo ricordo benissimo. Stavo leggendo il giornale, e mi rammento anche quale, l’Araldo di Richmond, proprio così; non ho mai più visto tante bugie stampate su un foglio di carta, da allora. Me ne stavo lì seduto su una cassa di gallette, e leggevo il giornale; c’era Joe McLaughlin, e forse qualcun altro, ma quelli non me li ricordo, invece di Joe McLaughlin me ne ricordo eccome, che ci metterei la mano sul fuoco. Stava lì seduto, anche lui, su un’altra cassa di gallette; ne avevamo un mucchio di quelle casse, allora, col loro bravo marchio, U.S. Army, perché qualcuno le aveva fregate agli yankees, un intero convoglio. Chi non l’ha mangiata, la galletta degli yankees, non può sapere che cos’era. Pietra o mattone, ecco cos’era. Bisognava lasciarla a bagno nell’acqua, e poi friggerla nel grasso, prima di assaggiarla, e anche così, se non stavi attento, ci lasciavi i denti. Eppure quando ce n’era la mangiavamo eccome!
(Alessandro Barbero, “Alabama”, Sellerio, 2021)
Sia chiaro in premessa: non ce l’ho con Barbero, che come storico e divulgatore è sicuramente un personaggio che non solo sa le cose, ma le sa anche comunicare. Ma non è detto che uno bravo in una cosa sia bravo in tutte: dunque, come romanziere Barbero è francamente modesto. Eppure, non ho letto recensioni negative di critici blasonati: nella maggior parte dei casi, il critico illustre si limita a non fare la recensione negativa, ignorando il libro. Mi sento invece sufficientemente spirito libero da poter scrivere di ciò che a mio giudizio è buono e ciò che non lo è: liberi tutti di non pensarla come me.
Veniamo dunque ad “Alabama”: Barbero s’immagina un reduce della guerra di secessione americana, un soldato del fronte sudista, cioè quello perdente, che ha una specie di colloquio immaginario con una studentessa di college, che lo spinge a raccontare fatti e ricordi della guerra civile americana. Colloquio? Beh, immaginario due volte: parla sempre e solo lui, il reduce, con un torrenziale flusso di parole, pensieri e personaggi, in un inarrestabile flusso di coscienza e di parola, neanche fosse un romanzo di Saramago.
Entra di tutto, nel monologare del reduce: dal razzismo alle disuguaglianze sociali (anche negli U.S.A. ci sono un Nord e un Sud), dalla rabbia alla frustrazione per la guerra perduta, e poi una certa supponenza, che spinge a scansare la riflessione, l’erotismo ridotto all’aspetto fisico, il rapporto con la religione (chiese & sette). E’ un uomo ormai avviato al tramonto che non capisce il cambiamento della società, c’è un vecchio mondo che è già sparito ma lui sembra non accorgersene.
Pur comparendo nelle classifiche delle vendite di libri, Barbero romanziere è meno convincente del Barbero storico. Il divulgatore/affabulatore diventa qui pedante e logorroico, ed in mezzo al continuo blablabla del reduce il lettore finisce per stordirsi e per perdersi le cose più interessanti. Come un vino un po’ troppo allungato con l’acqua. Come una musica sparata a volume troppo alto.
Gianluigi Coltri
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