Accade. Capita di rado, ma accade. Ed è come se tutti i motori decidessero di arrestarsi, le
auto scomparissero e nel frastuono cessato la società civile suonasse la riti rata. L’alba nata
dal mare spazza la pianura, il cielo coinvolge lo sguardo collettivo e nell’incantamento universale agli emiliani che guardano verso settentrione appaiono le cime prealpine. In quella luce rosa che afferra l’intero panorama ogni dettaglio si riduce a una grandiosa inezia, e tutto sembra immobile e genuflesso come al passaggio di una Incoronata. Questa è la soluzione. L’attimo in cui percepisci di vivere in una conca e che quel nostro gran daffare è tutto lí, chiuso su tra i fiumi, tra l’Alpe e l’Appennino, tutto quello che s’è detto e che diciamo, il combattere il vivere il morire, sorgere e decadere, tutto abbracciato in un unico sguardo dove si alternano tenerezza e maledizione. Si chiama casa, questa valle padana di lacrime.
(Massimo Zamboni, “La trionferà”, Einaudi, 2021)
Massimo Zamboni è un musicista, per alcuni anni ha suonato in un gruppo denominato CCCP, diventati successivamente CSI. Basterebbe questa evoluzione per spiegare il libro, che è un viaggio a Cavriago, comune in provincia di Reggio Emilia, ad altissimo tasso di comunismo (monumento a Lenin incluso), ma con il crollo del muro di Berlino, l’arrivo della glasnost e della perestroika, di bandiere rosse e inni proletari finisce per rimanere poco per non dire niente. Ecco il titolo: “La trionferà”, ed è ovvio che è (dovrebbe essere) la bandiera rossa e ciò che rappresenta.
Passa letteralmente un secolo di storia, in queste pagine che stanno tra la storia romanzata e il romanzo storico, non per niente ma il partito comunista in Italia è stato fondato nel 1921.
Passano nel libro gli anni del fascismo: Zamboni ne sa qualcosa, in un precedente libro ha raccontato la storia del nonno materno, che fu ucciso dai partigiani ed era un piccolo esponente del fascismo locale. Passano gli anni del boom e poi quelli dello sboom, si modifica anche il tessuto economico del Reggiano, non più confrontabile con quello del passato.
Zamboni eccede forse un po’ in nostalgia, sembra che tutto il bello ed il buono sti a da una parte (neanche una parola sui preti massacrati dai comunisti alla fine della guerra), ma è anche onesto nel riconoscere che molte aspettative non erano altro che sogni, il comunismo perfetto non è esistito (e non esisterà) da nessuna parte, la società dell’uguaglianza perfetta ha finito per generare ingiustizie e massacri. Forse la vera nostalgia di Zamboni non è per il comunismo, ma per quella giovinezza carica di ideali, di confronti, di progetti che è scivolata nell’anonima maturità. Neanche per questo c’è rimedio.
Gianluigi Coltri
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