Lunghe collane, rossetto vistoso, immancabile sigaretta: soverchiante dei pregiudizi e della cattiveria umana, Alda Merini ha raccontato al mondo le ingiustizie subite e il suo erotismo insegnandoci che non importa chi si ama ma che l’importante è amare e che l’amore, come la poesia, è l’unico antidoto possibile alla pazzia.
Emotiva e passionale, ha vissuto le sue ombre e i suoi amori aspirando costantemente ad una felicità irraggiungibile. Di Alda Merini ho sempre amato la vitalità, l’occhio vispo ed il tentativo incessante di imporre se stessa sulle sofferenze. Fin da bambina la sua vita fu costellata di tribolazioni, incomprensioni, ferite dell’anima.
Iniziò presto a convivere con una sorta di dolore ontologico, comune a molte donne, comune a chi soffre. Così la sua esistenza divenne presto misteriosa, magmatica, profondamente suggestiva. Fu una donna del fare poetico: libera, inafferrabile, una “piccola ape furibonda”, come lei stessa amerà definirsi in uno dei suoi scritti.
Portò anche lo stigma della follia, quella follia che accolse e dichiarò sempre, nella sua poesia e nella sua prosa, ma anche la trascinò nell’inferno del manicomio. Ecco, fu proprio attraverso la sua urgenza di vivere appieno la vita nonostante tutto, che presti si trasformò in urgenza di scrivere, che Alda riuscì a tramutare, come avrebbe fatto un esperto alchimista, tutto il suo dolore in amore.
Questa fu la sua magia. Personalmente, come poetessa, ho sempre amato e stimato Alda per la capacità che ebbe di amare la vita, anche le pene, al punto che, avanti negli anni, si sentì in grado di dichiarare: “più bella della poesia è stata la mia vita”.
Angela Mariotto
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