Oggi ho impastato le caramelle,
le caramelle d’erba trastulla:
gocce di miele, raggi di stelle,
lievi che sembran fatte di nulla.
Colto ho le bacche sulla pendice
presso la Torre, del rivo a specchio;
tratto ho la scorza dalle myricae
nei praticelli di Castelvecchio.
D’ogni sapore, d’ogni profumo,
ho messo un poco, senza far torti:
polpa di pesche, spire di fumo,
voci di bimbi, brusio degli orti.
E v’ho mischiato rose e mortella,
zirli di tordi, fiocchi di neve,
l’erica, il vischio, la pimpinella
e il blando e uguale suon della pieve.
Poi con lo zucchero sciolto nel pianto
coperto ho il nòcciolo d’ogni pastiglia:
le asciuga il vento del Camposanto che
fra i cipressi freme e bisbiglia.
Mentre singhiozza da presso il rivo
fra il gracidare delle ranelle,
dolce è il mio piangere senza motivo
assaporando le caramelle.
Volete ribes, menta, lampone,
gusto di fragola, gusto d’arancia?
Son dolci e acidule quelle al limone
come le lacrime lungo la guancia.
C’è la cedrina, ci son le more,
c’è l’amarena, c’è il ratafià:
e chi le succhia sente nel cuore
una dolente felicità.
(“Le caramelle”, di Paolo Vita Finzi, da “Antologia apocrifa”, Quodlibet, 2015)
Non vorrei mai che questa rubrica sembrasse troppo seriosa: libri e cultura richiamano alla mente sale polverose di biblioteche oscure, libroni e tomi, un silenzio da chiesa. Ma la cultura può essere estremamente giocosa e, tanto per cominciare, decidere di prendersi in giro da sola.
É il caso di oggi, vi propongo qui sopra un piccolo capolavoro di parodia: autore ne è Paolo Vita Finzi, scomparso nel 1986, una vita da diplomatico, giornalista e scrittore, specializzatosi nel prendere in giro (con molta moltissima base culturale) letteratura e letterati.
Memorabile una sua mimetizzazione da critico (il grande Mario Praz) nell’analisi del testo de “La vispa Teresa”, che diventa il racconto morboso di un’esperienza sessuale (dalla “farfalletta” all’”erbetta” è tutto un alludere) sulle ali di un estenuato post-romanticismo intriso di marchese De Sade.
Nel caso de “Le caramelle” il bersaglio è Giovanni Pascoli: dalle rime alla metrica, tutto suona molto pascoliano. Ma è pascoliano anche il tema: le piccole cose della vita (cosa c’è di più piccolo e banale delle caramelle?) che l’addolciscono, o l’amareggiano. Ci sono precisi riferimenti pascoliani: le myricae, i prati di Castelvecchio, le voci di bimbi… Ma la vera perfida parodia pascoliana è quell’autocompiacimento melanconico: se non bastano lo zucchero sciolto nel pianto e il vento del camposanto che asciuga le caramelle (in fondo, più che una poesia, questa è una ricetta), è proprio l’atto di gustare il prodotto a generare quel “piangere senza motivo”, che culmina poi in quell’ossimoro finale di “dolente felicità”.
Insomma, sembra di vederlo, il Pascoli, parodia di se stesso, un po’ come l’Elvis Presley dei suoi ultimi anni, gonfio, bolso, grasso e patetico, e che eternamente ripete se stesso (o l’imitazione di se stesso).
Gianluigi Coltri
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