Chi sono questi benandanti? Da un lato, essi affermano di contrapporsi a streghe e stregoni, di ostacolarne i disegni malefici, di curare le vittime delle loro fatture; dall’altro, non diversamente dai presunti avversari, asseriscono di recarsi a misteriosi raduni notturni, di cui non possono far parola sotto pena di essere bastonati, cavalcando lepri, gatti e altri animali.
Questa ambiguità si riflette anche sul piano lessicale. La nozione della differenza profonda, anzi dell’antagonismo esistente tra streghe e stregoni (cioè «gl’homini et donne che fano il male») e «gl’homini et donne benandanti», sembra infatti farsi strada con difficoltà nella stessa coscienza popolare. Così, un parroco di campagna come lo Sgabarizza (che dapprima ricorre significativamente a una traduzione approssimativa del termine avvertito come estraneo: «vagabondi et in loro linguaggio benandanti») e il mugnaio Pietro Rotaro parlano di «stregoni benandanti» – dove l’aggettivo si precisa unicamente appoggiandosi al sostantivo già saldamente posseduto. Stregoni, i benandanti: ma stregoni «beni», afferma lo Sgabarizza, che cercano di difendere i bambini o le provviste delle case dalle insidie degli stregoni malvagi. Fin d’ora i benandanti ci appaiono sotto il segno di una contraddizione che modellerà profondamente la loro vicenda secolare.
(Carlo Ginzburg, “I benandanti”, Adelphi, 2020)
Che bella è la Storia (notare la S maiuscola) quando recupera le storie, soprattutto se sono quelle
della gente comune, il parroco, il contadino, il mugnaio… Rivivono grazie a ricerche come quelle di Carlo Ginzburg Anna la Rossa, Olivo Caldo, Michele Soppe, che abitarono il Friuli cinque secoli fa e che, in alcuni casi, erano benandanti. Non combattevano streghe e stregoni, ma erano essi stessi streghe e stregoni. Pacificamente creduti e apprezzati dalla gente, si trattava, in molti casi, di persone “nate con la camicia”, ossia avvolti nella placenta uterina. Questa caratteristica li faceva diventare, con il tempo, specie di vagabondi, che era impossibile trattenere, perchè dovevano andare a combattere la magia nera e cattiva delle “vere” streghe e dei “veri” stregoni.
Ginzburg, cinquant’anni fa, indagò su queste figure quasi per caso, incontrando il termine “benandante” negli atti di un processo presso il Sant’Uffizio di Venezia, comprendendo subito che la faccenda poteva essere interessante. Proseguì le ricerche in Friuli e, a poco a poco, emerse la memoria di queste persone particolari, come pure delle credenze e superstizioni che stanno alla base del loro mito e che trovano anche riscontro nel Nord Europa. Già, anche il sabba stregonesco non era esclusiva delle foreste teutoniche, avveniva anche nelle nostre campagne nordestine.
La nuova edizione del saggio di Ginzburg contiene una memoria dell’autore, un commento fatto a distanza di cinquant’anni da quelle ricerche, culminate nella prima pubblicazione, nel 1966. Lo storico di oggi si confronta con se stesso, il giovane di allora (che fumava, diversamente da oggi, ed anche questo marca la distanza). Fa il punto su alcune affermazioni, forse un po’ spericolate al tempo, e si confronta con autori che hanno condiviso o contraddetto le sue posizioni. Con aspetti nuovi, che meriterebbero nuove ricerche: il Menichino che durante il processo davanti all’Inquisizione parla di “campo di Giosafat” citando la Bibbia, lo fa perchè in qualche maniera, con le buone o con le cattive (con le torture cioè) gliel’hanno estorto o perchè, va a sapere come, lo sa? E come mai questo riferimento sta nelle parole anche di altri benandanti?
Buona giornata a tutti, benandanti e non.
Gianluigi Coltri
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