Ero seduto sulla panchina, nel fienile. Non solo ero consapevole di trovarmi lì, di fronte alla porta sgangherata che, sbattendo di continuo, lasciava entrare raffiche di vento e neve, ma mi vedevo chiaramente come in uno specchio, e mi rendevo conto di quanto fosse incongrua la mia posizione. La panchina era una panchina da giardino dipinta di rosso. Ne avevamo tre, che durante l’inverno mettevamo dentro, insieme al tagliaerba, agli attrezzi da giardinaggio e alle zanzariere delle finestre. Cent’anni prima il fienile, anch’esso di legno dipinto di rosso, era stato un fienile a tutti gli effetti, ma ormai era adibito a spaziosa rimessa.
Se comincio da quel momento è perché è stato una specie di risveglio.
(Georges Simenon, “La mano”, Adelphi, 2021)
Nella vastissima produzione letteraria di Georges Simenon si possono rintracciare dei temi ricorrenti (un uomo in fuga, la relazione torbida, l’emarginato contro la società…), ma lo scrittore è bravissimo a mescolare gli ingredienti e a tirar fuori nuove trame, oppure, come avrebbe fatto un Bach in musica, a esplorare variazioni del tema. Una delle variazioni predilette è quella con pochissimi personaggi, meglio se un paio di coppie, che l’autore caccia in situazioni limite come fossero cavie e poi, da ricercatore un po’ sadico e un po’ cinico, si mette lì ad osservare quello che succede.
Nel genere, “La mano” è un capolavoro: siamo subito, dalle prime righe, cacciati dentro un fienile, con uomo che sembra confuso, con qualcosa che forse è già successo oppure sta per succedere. Saremo sempre con lui, la voce narrante, fino alla fine, e in mezzo troveremo un cadavere, delle amicizie un po’ strane, molta neve (che da subito da un tocco da bianco infernale – vd. Shining di Kubrick per analogia).
Donald Dodd è ambiguo (avvocato di professione…) ma a Isabel, sua moglie, basta uno sguardo per comprendere qualcosa che non è espresso nè esprimibile a parole. L’amico Ray (che conosceremo sempre per interposta persona) ha sposato Mona, una donna che a solo guardarla “fa pensare a un letto”. Bastano questi quattro personaggi, tenuti in una continua tensione narrativa, a costruire un romanzo perfetto, dove tutto sa di chiuso e di claustrofobico, anche il paesaggio, e dove i silenzi e gli sguardi pesano più delle parole.
Gianluigi Coltri
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