I lettori di questo libro troveranno una decina di passaggi in cui il romanzo, se non ho capito male, pretende di commentare sé stesso.
Chi si esprime lì in prima persona è proprio il testo, consapevole, a quanto esso stesso afferma, di consistere in un insieme di parole che trasmettono una storia. A volte si permette di rivolgere qualche
obiezione a chi lo scrive, cosa che, fatta in pubblico, non deve per forza risultare gradevole al suddetto.
In un primo tempo, ho ritenuto che quegli interventi equivalessero a un’intromissione e, cosa che mi pare ancora più eccepibile, a un’aggiunta superflua che interrompe e, pertanto, danneggia la fluidità narrativa. Successivamente ho cambiato parere.
Non ignoro che questo espediente comporti un rischio. Mi riferisco al rischio ovvio di ispirare un rifiuto, in particolare a quegli appassionati di romanzi che detestano qualunque alterazione nella
continuità del narrato.
Nulla sarebbe stato più semplice per me che sopprimere quei dieci passaggi, pur riconoscendo che la loro brevità mi invita a tollerarli. Al di là della perturbazione che possono arrecare alla lettura e
dell’antipatia che forse sulle prime susciteranno, il loro contenuto non mi pare irrilevante. Mi sembrano pertinenti certi dettagli tralasciati dal narratore, i quali apportano elementi credo preziosi sui personaggi e le loro vicende. Per di più, riconosco che contribuiscono a introdurre oasi di calma riflessiva in una storia che di frequente sfiora i limiti dell’intensità.
Un giorno ho provato a leggere il romanzo evitando i passaggi che motivano questa nota. Mi ha colpito il fatto grave che certe parti della storia rimanevano incomplete. Al fine di facilitare coloro che
non la pensano allo stesso modo e desiderano saltare quei dieci interventi del testo, essi appariranno stampati in corsivo.
(Fernando Aramburu, “Il bambino”, Guanda, 2024, trad. Bruno Arpaia)
Un po’ strano come inizio, come sono strani questi incisi, che rompono lo scorrimento del romanzo. Certamente, come scrive Aramburu, ci sono “parti della storia che rimanevano incomplete”. Ma il fascino sta anche negli silenzi, o nelle contraddizioni e nelle incertezze che chi narra esprime. Questo non toglie che il ritorno di Aramburu, dopo il grande successo di “Patria” del 2016, sia comunque con i fiocchi.
Aramburu parte da un fatto vero, di una quarantina d’anni fa, una disgrazia che porta tra le conseguenze anche la morte di Nuco, un bambino di sei anni. Vanno in crisi tutti: dal nonno Nicasio (tra nonno e nipote c’era – c’è – un legame fortissimo) alla mamma Mariaje al padre Josè Miguel. Ciascuno a suo modo vive una delle situazioni in assoluto più atroci: la perdita di un figlio, il fatto più innaturale che c’è (nella lingua italiana non abbiamo neppure un vocabolo per dirlo, come abbiamo invece omicidio, femminicidio, uxoricidio, infanticidio…).
Sono persone semplici, con storie comuni, che potremmo incarnare tutti, e questo rende la lettura particolarmente coinvolgente, grazie anche all’abilità di Aramburu di spostare il punto di visto, di scorrere dall’uno all’altro. Con l’aggiunta di altre figure minori ma non meno importanti: amici e parenti. In particolare da sottolineare le diverse modalità dell’amicizia femminile (la parrucchiera per Mariaje) e quella maschile (il pescatore amico di Josè Miguel).
Lettura comunque un po’ disturbante, in puro stile Aramburu.
Play | Cover | Release Label |
Track Title Track Authors |
---|