L’8 ottobre 2016 mi sedetti a scrivere una lettera a mio padre, che era morto dodici anni prima. Ricordo la data perché dicevo che il giorno precedente era stata pubblicata sul «Washington Post» l’oscena conversazione tra Billy Bush e Donald Trump, dove quest’ultimo si vantava di acchiappare le donne per i genitali.
Con mio padre ci eravamo scritti lettere per tutta la vita.
Iniziò lui col tenere un diario dedicato a me, io avevo quattro anni; lo ritrovai dopo la sua morte, in mezzo a lettere e carte. Il mio turno arrivò quando avevo sei anni e lui si trovava in America a studiare: strappai una pagina da un quaderno e buttai giù qualche parola, chiamandolo Baba jan, «carissimo papà» in persiano, e firmandomi la «figlia di Baba». Non ci scrivevamo solo quando eravamo lontani, ma anche nei periodi in cui abitavamo nello stesso paese, addirittura nella stessa casa.
Ci mandavamo lunghe lettere, se l’occasione lo richiedeva. Per esempio quando a tredici anni fui spedita a studiare in Inghilterra, o nel 1963, quando era sindaco di Teheran e fu arrestato per motivi politici, perché si era rifiutato di obbedire al primo ministro e al ministro degli Interni, suoi acerrimi nemici; rimase per quattro anni in una cosiddetta prigione temporanea, durante i quali continuammo a scriverci. Gli parlai anche del mio matrimonio, il primo: io avevo diciotto anni e lui, trovandosi in carcere,non poteva partecipare alla cerimonia.
(Azar Nafisi, “Leggere pericolosamente”, Adelphi, 2024, trad. Anna Rusconi)
Ho incontrato Azar Nafisi a Pordenonelegge 2024, dove ha ritirato un premio proprio per questo libro. Ho potuto parlarle e misurarne l’estrema pericolosità: già, la signora Nafisi, che ha superato gli ottant’anni e peserà neppure quaranta chili, maneggia l’arma della cultura, del pensiero libero. Proprio quello che non piace alle dittature, alle autocrazie e alle teocrazie (come a casa sua, in Iran).
Questo “Leggere pericolosamente” chiude un cerchio che si era aperto con “Leggere Lolita a Teheran”, di nuovo è la letteratura ad essere importante, soprattutto perchè, come scrive Nafisi, che ormai si sente tanto americana quanto iraniana, apre al confronto, alla riflessione, mostra scenari, fa capire anche il “nemico”. Il virgolettato è d’uopo, ma se in Iran le virgolette si possono tranquillamente togliere, qui da noi il “nemico” è ancora in formazione, determinato dalla polarizzazione di ogni tema,sociale o culturale. Siamo al “chi non è con noi è contro di noi”, accentuato nel libro di Nafisi dall’avvento di governanti in tutto e per tutto orientati così. Non per niente, ma le lettere che Nafisi immagina di scrivere al padre, sono datate tra il 2019 e il 2020, nel secondo biennio dell’amministrazione Trump.
Usa molti scrittori, per queste lettere, compreso l’israeliano David Grossmann, non solo l’afroamericano James Baldwin. Ammonisce sui pericoli della radicalizzazione delle posizioni, ma anche sul grande pericolo dell’indifferenza, nel mondo occidentale, che può essere anche peggiore dello scontro. Poi, succede che un giorno sparisce la libertà, ed allora la rimpiangi, ma troppo tardi.
Insomma, un libro attualissimo, anche scomodo, con una visione alta del mondo e del nostro tempo, che però ci ostiniamo ad abbassare, rovinandolo con la conflittualità, il disinteresse, il cinismo. E l’ignoranza, che conscia del proprio limite, si traveste da arroganza.
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