Siamo andati al Circeo, nonostante fosse la cosa piú assurda da fare. La piú pericolosa.
Sono mesi che non ci stiamo piú con la testa. Troppi mesi. Non ci stiamo piú con la testa e ci sembra che tutto il mondo non ci stia piú con la testa, insieme a noi. I medici, i pochissimi amici che sanno, e
tutti quelli – la maggior parte di quelli che conosciamo, che amiamo – che non sanno nulla.
Siamo andati al Circeo dove il telefono non prende, dove non c’è connessione wi-fi, dove su quel monte in cui sono successe cose orribili neanche troppi anni fa, le rocce si stagliano alte e crude
contro di te, mentre sali o scendi i tornanti, e sai che sei solo. Se c’è un’emergenza, sei solo. Se muori, sei solo.
Mi stendo sul nostro letto, accanto ad Andrea, ma sono terrorizzata. Il letto è spinto contro la parete della casetta di mare che abbiamo scelto a marzo (marzo 2021) – quando tutto era appena successo, ma non sapevamo potesse andare ancora peggio di cosí. Io sono sovrastata dall’angolo di muro in cui è incastrato il letto, dalla montagna in cui ci siamo andati a ficcare senza poter comunicare con nessuno. Il terrore che provo è piú alto e piú nero di questa montagna.
Andrea prende un libro. Io ascolto cosa succede al mio corpo, e sento il sangue scorrere fuori da me, come succede da febbraio.
Adesso è giugno. Sangue a gocce, a grumi, a fiotti, a secchiate.
Adesso viene fuori liquido e infinito mentre sono stesa e mi dico non respirare. Forse, se non respiri, il sangue finisce.
Ma ad Andrea che ho cosí tanta paura non posso confessarlo, altrimenti mi dirà: torniamo a Roma.
E io non posso. Non posso cedere. Non voglio cedere a tutto questo dolore. Voglio il mio giugno al Circeo, voglio il mio diritto a cercare di ricostruire la mia vita, voglio il mio diritto a stare seduta
davanti al mare, sugli scogli piatti e levigati, senza sentire male dappertutto. Voglio il mio diritto a dire: rifiuto tutto quello che è successo, rifiuto la realtà, rifiuto che sia potuto succedere a me. Che stia succedendo a me. Non voglio far pace con quello che è successo. Non voglio che sia successo.
(Antonella Lattanzi, “Cose che non si raccontano”, Einaudi, 2023)
Questo libro (autofiction? Autobiografia? Confessione? Sfogo?) mi ha spiazzato. Perchè la scrittura è potente, il tema è forte, così forte e femminile che quasi mi sento a disagio a commentarlo, perchè mi sembra un’invasione di campo (si parla di aborti e di maternità). Ma, nonostante sia stato disturbato durante la lettura dai miei stati d’animo, dalla mia contrarietà rispetto a scelte e decisioni della protagonista-autrice, non ho potuto fare a meno di leggerlo fino in fondo.
Antonella Lattanzi è autrice già nota, scrive anche sul Corriere della Sera, con il libro precedente è arrivata vicina ad essere finalista dello Strega 2021. La scrittura, e dunque il suo lavoro, è importante per lei, al punto da utilizzarla per questo viaggio-incubo dentro le pratiche di inseminazione artificiale e dentro tutto il dramma di trovarsi, a quarant’anni suonati, con una gravidanza trigemellare. Eppure, quand’era giovane, molto più giovane, le gravidanze erano arrivate senza tanti problemi: il problema, semmai, era la gravidanza, e dunque nel passato di Antonella ci sono anche due aborti volontari.
Ho detto che il libro mi ha disturbato, e non dovrei cadere in critiche personali, che Lattanzi del resto, con ciò che scrive, chiaramente mette in conto. Il problema più importante, che appare da questo romanzo-verità, è l’idea di vita che circola nella nostra società, in questo tempo. Vita come proprietà personale e non dono, vita come maternità a comando, vita come autorealizzazione (lodevole, necessaria) ma a scapito di qualcos’altro. Ecco, l’altro: la parola che ricorre di meno, in tutto il libro, è quella che esprime ciò che da lei tutto discende. Amore.
Gianluigi Coltri
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