Parole, frasi, numeri, distanza destinazione.
L’uomo sfiorò il pulsante, modificando la posizione verticale del sedile. Si ritrovò con gli occhi fissi sul
piú vicino dei piccoli schermi posizionati in alto, appena sotto la cappelliera: parole e numeri che
cambiavano di continuo con il procedere del volo. Altitudine, temperatura esterna, velocità, ora di
arrivo. Aveva sonno, ma continuava a guardare.
Heure à Parigi. Heure à Londra.
– Guarda, – disse, e la donna annuí appena, continuando a scrivere su un quadernino azzurro.
L’uomo prese a snocciolare le parole e i numeri ad alta voce, perché altrimenti qual era il senso, a che
pro limitarsi a osservare quei dettagli che cambiavano sempre per poi perdersi nei ronzii gemelli della
sua mente e dell’aereo.
– Ok. Altitudine trentatremila e due piedi. Oh quanta precisione, – disse. – Température extérieure
meno cinquantotto C.
S’interruppe e aspettò che la donna dicesse Celsius. Ma la donna, che guardava il quaderno poggiato
sul tavolino estraibile davanti a sé, si fermò a pensare per qualche istante e poi riprese a scrivere.
– Ok. Ora di New York dodici e cinquantacinque. Non è specificato se a.m. o p.m. Ma direi che non ce
n’è bisogno.
L’importante era dormire. Aveva bisogno di dormire. Ma il flusso di parole e numeri era incessante.
(Don De Lillo, “Il silenzio”, Einaudi, 2021)
Spigolando in giro per il web, questo romanzo (breve) di Don De Lillo raccoglie o il pollice verso o
l’entusiamo: niente mezze misure. Immagino che l’autore si faccia delle grasse risate: del resto, è
nell’età in cui, seguendo il famoso assioma di Arbasino, è ormai catalogabile come “venerato
maestro”, anche per motivi anagrafici, ed avendo ormai superato sia la fase del “giovane promettente”
che quella del “solito stronzo”.
“Il silenzio” è stato scritto nel 2020, dunque arriva con un De Lillo ultraottantenne: c’è molto mestiere
nei dialoghi e nei monologhi, in un certo senso l’autore sembra aver scartato e buttato via tutte le
frasi in più, tutte le descrizioni pleonastiche. Restano dialoghi e monologhi, appunto, in una situazione
di blackout energetico, televisioni spente e telefoni muti. E con un incidente aereo che non diventa
tragedia per pochissimo. E tutto il vociferare rappresenta forse una specie di horror vacui, di timore
del vuoto, del silenzio appunto, che potrebbe invadere le nostre sicurezze, che potrebbe amplificare
le nostre insicurezze.
De Lillo non risolve, non spiega, ci lascia lì, con quella che potrebbe essere una splendida
sceneggiatura teatrale, disorientati e confusi. Qualcosa del genere, Mauro Corona l’aveva scritto
qualche anno fa (“La fine del mondo storto”), ma sapeva troppo da favola, o da parabola (con morale
inclusa). De Lillo è più disperante, molla il pugno a sorpresa. E poi nasconde la mano.
Gianluigi Coltri
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