A volte attraversava il paese a passi svelti con al braccio il cestino di legno in cui metteva sempre il sacco di iuta che le serviva da cappuccio in caso di pioggia. Io le correvo dietro con tutta la forza delle mie gambette. Se spariva all’angolo di una strada o dietro una macchina o dietro il crocchio di donne che al mattino chiacchieravano facendo la spesa o che, sulla soglia di casa, raccoglievano l’acqua dei rigagnoli per innaffiare i fiori e lavare il loro tratto di marciapiede, mi prendeva la paura che ne approfittasse per lasciarmi là, da sola in quella strada piena di case sconosciute, di facce sconosciute. Non sarei stata nemmeno capace di ritrovare la vecchia casa vicino ai salici del fiume.
Allora correvo con tutta la velocità delle mie gambette, col cuore che faceva il matto, per riacchiapparla. A volte si fermava un istante. Io rallentavo per riposarmi un po’, raggiante verso di lei che mi aspettava. Si rimetteva sempre in cammino prima che riuscissi a raggiungerla.
Ricominciavo a correre fissando la sua schiena.
Quando attraversava il paese, e capitava di rado perché in genere, per andare nelle fattorie, ci girava attorno per vie laterali o tagliando per i campi, la gente taceva per guardarla arrivare, passare, allontanarsi. Nessuno rideva.
Nessuno le rivolgeva battute salaci. Lei andava, con lo sguardo lontano, e con me che le correvo dietro, e quelli la guardavano.
Se dovevano parlare con lei, dicevano:
«Génie la matta».
Mai:
«Eugénie». (Ines Cagnati, “Genie la matta”, Adelphi, 2022)
La famiglia di Ines veniva dall’Italia, dal Veneto, credo dal Vicentino, e lei si sentiva legata all’Italia, pur essendo diventata scrittrice in lingua francese. Figlia dell’immigrazione, nata nel 1937, era cresciuta nelle campagne ed al mondo rurale è rimasta legata anche nei suoi libri. La scopriamo adesso, a quindici anni dalla morte, con la prima edizione italiana di “Genie la matta”, grazie ad Adelphi, che non ha perso la buona abitudine di ri-scoprire autori.
Chi parla, nel libro, è Marie, la figlia di Eugenie, detta Genie. La madre parla poco, pochissimo, anche con la figlia, la scaccia perfino, come importuna, o fastidiosa. Capiamo con l’andare delle pagine il perchè: Marie è figlia non voluta, arrivata da una violenza, scacciata dalla famiglia d’origine ma in qualche modo sostenuta dalla comunità del borgo. In verità, anche l’aiuto è più interessato che altruistico, lo si capisce ancor di più quando Genie arriva ad un livello più alto di vita, sposandosi e facendo anche un figlio. É l’ultima degli ultimi, e là, in fondo alla scala sociale, è e rimarrà il suo posto.
Le mie note non restituiscono neanche lontanamente, me ne rendo conto, la drammaticità del romanzo, che sembra neo-realistico ma invece è più vicino alla tragedia greca. Entrano in campo il destino, la società divisa in ceti, il ruolo della donna, l’arretratezza delle campagne, l’etichettatura sociale e, non ultimo, il rapporto madre-figlia. Ma su tutto e tutti spicca Genie, colei a cui la vita non ha dato niente e tolto tutto. Tragicamente vera, ed indimenticabile.
Gianluigi Coltri
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