Il giorno in cui Bruno fu costretto a partire si trovava nel bosco.
Era mattina presto. I raggi già scaldavano l’aria e facevano esalare dal terreno e dai muschi il vapore residuale dell’umidità notturna, quando Uto raggiunse il fratello minore in prossimità di un bivio in una faggeta sofferente e assetata. Bruno era sdraiato per terra, prono, incantato a osservare un formicaio brulicante. Uto gli si avvicinò lentamente, per non spaventarlo. Si schiarì la voce e con una certa insistenza disse: “Adesso dobbiamo andare”. Bruno non si voltò nemmeno, ma con il tono calmo della voce rispose: “Le formiche sono bellissime, non trovi?”
(Matteo Righetto, “Il prato dopo di noi”, Feltrinelli, 2020)
Non so se definirlo un filone a sè o piuttosto una derivazione, o uno spin off della narrativa distopica:
è quello dei romanzi apocalittici. Un mondo distopico (contrario di utopico), è pur sempre un mondo, non molto desiderabile ma pur sempre abitabile. Nei romanzi apocalittici, il mondo non c’è più o è ridotto ai minimi termini. Pensiamo a “La strada”, capolavoro di Cormac McCarthy.
Nel filone apocalittico ci metterei i romanzi a prospettiva ecologica: un Mauro Corona meno televisivo e più narrativo, qualche anno fa pubblicava “La fine del mondo storto”, in cui la mancanza di energia elettrica portava alla paralisi totale. Anche là, come in “Fahrenheit 451” si bruciavano i libri, ma per scaldarsi. Il romanzo di Matteo Righetto, invece, ha coordinate attualissime: l’innalzamento delle temperature e la diminuzione delle api. Il primo scatena siccità, modifica montagne e pianure, mentre la seconda mette a rischio l’intera sopravvivenza alimentare del genere umano.
Tocca ad un omone (Bruno) e a una bambina (Marlene) con un po’ di api sopravvissute, e ad un vecchio (Johannes) che gira con un carretto con sopra una cassa da morto (se l’è preparata in anticipo), trovare una possibile nuova sopravvivenza. Ma le pianure e le città ardono non solo per il caldo ma pure per i disordini, e bisogna spostarsi sempre più su per sperare di avere ancora un ambiente vivibile.
Il finale, lo dico subito, non è del genere consolatorio: con un po’ di cinico pessimismo (nei confronti del genere umano), l’autore tra le righe è come se dicesse che se l’uomo è il problema della Terra, togliendo l’uomo si toglie il problema.
Gianluigi Coltri
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