In Mile End Road, di fronte al London Hospital, c’era (e credo ci sia ancora) una fila di piccoli negozi. Uno aveva ospitato un fruttivendolo, ma adesso era in attesa di un nuovo affittuario. Tutta la facciata, a eccezione della porta, era coperta da un telo, dove si leggeva che all’interno, pagando due penny, si sarebbe potuto vedere l’Uomo Elefante. Di cui sul telo stesso, con colori a dir poco approssimativi, era dipinto un ritratto a grandezza naturale. Il crudo manufatto raffigurava una creatura spaventevole, uscita dritta da un incubo. Era un uomo simile, in tutto e per tutto, a un elefante. La trasformazione, però, doveva essersi interrotta nelle prime fasi. La creatura era ancora, sostanzialmente, un uomo.
(Frederick Treves, “L’uomo elefante”, Adelphi, 2020)
Tra le pieghe del ricchissimo catalogo Adelphi, non vi sono solo opere imponenti come i saggi di Hofstadter o di Baltruisaitis, ma anche collane di libricini, come la “Biblioteca minima” o i “Microgrammi”. La densità dei contenuti è inversamente proporzionale alla volumetria: molto nel piccolo, insomma. Così, ci sono scritti di Cacciari e Sebald nella “Minima” e questo prezioso resocontodi un medico inglese dell’Ottocento nell’altra. Dico prezioso perchè, per gli amanti del buon cinema, il testo è servito da base per la sceneggiatura di “The Elephant Man”, secondo film di David Lynch. Girato in bianco e nero, con uno strepitoso protagonista (John Hurt), il film arrivò ad avere otto candidature agli Oscar, senza vincerne neppure uno.
La vicenda è quella di un uomo realmente esistito, Joseph Merrick, che per una grave forma di “Sindrome di Proteo” ha il corpo e soprattutto il capo deformati da escrescenze ossee. Quando lo scopre il dottor Treves (nel film, interpretato da Anthony Hopkins), il povero Merrick è portato in giro da un impresario ingordo e malvagio come fenomeno da baraccone. Non bastassero le derisioni, c’è anche chi lo picchia, considerandolo un essere pericoloso. La “mostruosità” di Merrick spaventa perfino le infermiere dell’ospedale dove il dottore riuscirà a ricoverarlo.
Il libro ha lo stile asciutto di un medico inglese, che comunque non può, in qualche pagina, non emozionarsi di fronte alla progressiva scoperta di quanto sta nell’animo (e nell’anima) dell’Uomo Elefante. Ma è presente anche quel tanto di distacco che ci costringe a riflettere sulla diversità, sul pregiudizio (l’equivalenza ipocrita mostro fisico = persona cattiva). E ci riporta anche, come principio di realtà, che nella vita non c’è sempre il lieto fine. Non c’è nel libro, non c’è nel film, di cui resta impressa la terribile sequenza in cui il povero Merrick urla a quanti vogliono picchiarlo per aver urtato per sbaglio una bambina: “Io non sono un elefante, io non sono un animale, sono un uomo, un uomo!”.
Consiglio di lettura, e di visione, anche a quanti seguono le Paralimpiadi in questi giorni: molta strada è stata fatta, dai tempi dell’Uomo Elefante, ma molta altra resta da fare, soprattutto dentro ciascuno di noi.
Gianluigi Coltri
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